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Carceri, il ruolo del non profit tra cultura dell’accoglienza e lavoro di rete

Riportiamo di seguito una sintesi del documento che il Forum Terzo Settore ha elaborato e consegnato al CNEL in occasione della giornata di lavoro “Recidiva zero. Studio, formazione e lavoro in carcere”, il 16 aprile a Roma. Il testo è stato pubblicato il 1 maggio da IlSole24Ore.

 

La carcerazione è spesso frutto di disoccupazione e disagio, oltre che di fattori criminogeni che potrebbero prescinderne. In questo quadro espositivo appare evidente che la volontà del cambiamento è un elemento inevitabile che prende vita proprio grazie al contatto con le realtà della rete che si occupano dei vari aspetti che possono contenere e circoscrivere la tendenza a delinquere.

Dati recenti, sostenuti da una molteplicità di indagini, ma mai confermati da una presa di posizione ufficiale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, parlano del 70% circa di ex detenuti che, potendo contare  su  occasioni trattamentali adeguate ( dalla fruizione di permessi premio, sino alla fruizione di misure alternative) non sarebbe tornata a delinquere, mentre il restante 30% avrebbe commesso atti devianti, anche in considerazione del fatto  la maggior parte di loro non avrebbe goduto di interventi socio educativi utili a favorire il loro reinserimento.

La conferma di tale valutazione viene proprio dalla lettura dell’interazione che avviene con interlocutori che non si occupano semplicemente di reperire un’attività lavorativa, spesso abbandonata perché più gravosa rispetto alla via breve del reato, ma che, in qualche modo, tentano di incidere, con il coinvolgimento dello stesso detenuto, in un percorso di risocializzazione di cui assuma la piena titolarità.

Tale premessa deve legarsi ad un altro elemento: la capacità attrattiva della criminalità organizzata a porsi come naturale soluzione al problema della mancanza di lavoro esterno. Uno degli obiettivi che dovrà sostenere l’impegno del CNEL nel tentativo di modificare la realtà penitenziaria, sarà quello di affrontare i rischi corrosivi della criminalità e la subcultura deviante che essa esprime. La subcultura della criminalità organizzata, infatti, suggerisce modalità di realizzazione economica assai più veloce di quanto non faccia l’inserimento nel mondo del lavoro.

L’aspetto più significativo del lavoro prodotto dal CNEL nell’interazione con il Ministero di Giustizia è da individuare nel tentativo, assolutamente condivisibile, di produrre ed elaborare una “cultura imprenditoriale”estensibile ad ogni contesto territoriale.

Sicuramente il mondo imprenditoriale rappresenta l’interlocutore privilegiato per offrire opportunità economiche e su questa linea sarà indispensabile, in prospettiva, consolidare il rapporto con il mondo della produzione perché cresca l’interesse verso la realtà penitenziaria da cui attingere forza lavoro, ipotizzando una quota parte di inserimenti occupazionali per la popolazione detenuto (superando, definitivamente, le barriere psicologiche legate ad un minimalismo culturale di una certa frangia dell’opinione pubblica che condannerebbe tale posizionamento, con la traduzione semplicistica per la quale “andare in carcere per trovare lavoro”).

Di grande significatività organizzativa è l’individuazione di un osservatorio permanente e di una cabina di regia nazionale con consequenziali diramazioni locali. Questa scelta rappresenta certamente un aspetto centrale nella definizione di un “modello unico di operatività istituzionale in tutti i contesti penitenziari”.

In questo senso è fondamentale partire dall’obiettivo di definire un sistema di governance multilivello improntato al principio di sussidiarietà e volto a traguardare, da un lato, i necessari obiettivi di efficacia, efficienza dell’azione amministrativa, pervenendo, dall’altro, alla individuazione e alla messa in funzione di meccanismi omogenei per la valutazione di impatto sugli effetti delle politiche pubbliche di riferimento.

Lo strumento dell’Osservatorio permetterebbe di assicurare l’uniformità nell’intero territorio nazionale delle politiche integrate in materia di interventi di inclusione attiva delle persone detenute.

Aiuterebbe, allo stesso tempo, il rafforzare la programmazione sociale integrata in ambito di interventi e servizi per il reinserimento delle persone detenute.

In sintonia con questo indirizzo sarebbe opportuno ipotizzare che la cabina di regia abbia i seguenti compiti:

  • porre in essere processi di rilevazione e analisi dei bisogni del contesto e delle risorse esistenti;
  • definire il piano di azione regionale triennale con i competenti uffici regionali delle amministrazioni centrali, la Regione, e con gli enti locali, le associazioni, il Terzo settore e le realtà produttive al fine di garantire servizi rispondenti alle esigenze differenziate delle persone e dei contesti territoriali di riferimento.

In questa ultima indicazione operativa viene nominato per la prima volta il Terzo settore, individuato quale potenziale risorsa e contenitore di operatività territoriale, ma senza un ruolo istituzionale, vuoi per la diversificazione delle competenze degli ETS vuoi perché comunque si tende a privilegiare la risorsa economica diretta senza tenere conto di come anche gli ETS rappresentino sbocchi occupazionali di non poco conto, tra l’altro caratterizzati da una gestione solidaristica che consente di fornire ai detenuti un’accoglienza decisamente meno formale e condizionata da pregiudizi.

L’inserimento di uno o più rappresentanti del Terzo settore all’interno del Segretariato permanente sarà un impegno essenziale del gruppo di lavoro del CNEL.

Un ulteriore aspetto decisamente condivisibile è quello relativo alla “dimensione generalmente ridotta dei progetti, dovuta al carattere per lo più sperimentale degli stessi, sia dal punto di vista delle risorse utilizzate che del numero di detenuti coinvolti.” In questa ottica si condivide l’idea per la quale è necessario e indispensabile passare dalla sperimentazione all’azione di sistema.

 

La complessità delle considerazioni sin qui espresse, rinviano a un ulteriore spazio di considerazione: moltissimi processi di reinserimento lavorativo, realizzati per lo più da cooperative sociali, vedono una presenza quasi trascurabile del mondo delle imprese profit.

 

Per raggiungere l’obiettivo di una maggiore presenza dell’Impresa sociale nel sostenere inserimenti lavorativi, bisogna favorire un rapporto definito e continuativo con il mondo dell’imprenditoria aumentando il piano delle offerte riguardanti la defiscalizzazione degli oneri nell’assunzione di detenuti. In tal senso è indispensabile, in stretta linea con gli indirizzi della Cassa delle ammende, prevedere il potenziamento e l’individuazione di nuove opzioni normative alternative o complementari alla Legge Smuraglia, L. 22 giugno 2000, n° 193.

Quella dell’applicazione della Legge Smuraglia rimane un nodo irrisolto da tempo nell’architettura di un piano programmatico che abbia come primario obiettivo aiutare i detenuti che escono dal carcere per il reperimento di una collocazione lavorativa.

Ma, come giustamente interpreta la linea di tendenza espressa dal documento del CNEL, il nodo gordiano da sciogliere riguarda i processi di professionalizzazione della popolazione detenuta. Da anni si lanciano campanelli d’allarme, dall’interno del carcere, inerenti la scarsa qualità formativa delle offerte da parte degli Enti Locali. Corsi di formazione professionale che producono attestati assolutamente non spendibili sul mercato del lavoro e che, in molti casi, l’unico lavoro che favoriscono è quello del corpo docente dei predetti corsi.

Sulla base di tali valutazioni risulta di primaria importanza quella di programmare piani professionali, una volta e per tutte, realmente corrispondenti ai fabbisogni del mercato del lavoro.

E a proposito di fabbisogni, forse la problematica più complessa del mondo penitenziario è legata all’insufficiente  offerta di attività rieducative.

Oggi gli educatori, anche con il recente innesto di nuovi organici, sono meno di mille a fronte di 60000 detenuti e numeri analoghi riguardano anche gli assistenti sociali, per non parlare degli psicologi, quasi spariti. Anche in questo senso appare fondamentale sottolineare, in chiave trattamentale, la funzione, di sostegno se non anche sostitutiva, che potrebbero interpretare gli operatori del Terzo settore (promozione sociale e volontariato) all’interno dei contesti penitenziari

Il trattamento è previsto (legge 354) solo per i definitivi. Senza pensare ai detenuti che hanno in sentenza il 4 bis e che devono prima espiare la pena ostativa, per poter accedere a benefici spesso residuali, appare chiaro che la progressione trattamentale riguarda un numero circoscritto dei detenuti. Anche questa dimensione potrebbe o forse dovrebbe essere oggetto di studio parlamentare estendendo la opportunità di programmi di trattamento individualizzati già dalla fase della ricorrenza in Cassazione.

Non appaia di secondaria importanza il suggerimento normativo appena espresso. Molte interpretazioni di natura legislativa che hanno esteso la sostanza di alcune disposizioni, è nata dall’esperienza e dall’allargamento del contenuto normativo. Certamente fa parte del patrimonio di conoscenza di un numero esiguo di esperti della dottrina penitenziaria, il sapere che, nell’ambito dell’attività teatrale, sono stati individuate, in altrettante occasioni, due interpretazioni estensive della norma. La prima riguarda la fruizione dei permessi.

Nell’originario art.30 della Legge 354, non era prevista la possibilità di fruire di permessi (nel 1982 non era ancora attiva la Legge Gozzini e, quindi, non esistevano i permessi premiali) se non per gravi motivi. In occasione del primo spettacolo esterno al carcere, fu introdotto l’aggettivo ” eccezionali” motivi e 6 detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia si esibirono nella cornice del Festival dei due mondi di Spoleto. La sperimentazione divenne prassi negli anni e oltre alla Compagnia Stabile Assai della C.R. di Rebibbia, anche altre Compagnie, come quella della Fortezza di Volterra, fruirono di questa opportunità, nata grazie al coraggio di un magistrato di Sorveglianza, il giudice Luigi Daga. E in tema di art.21 ancora la stessa Compagnia Stabile Assai ottenne di utilizzare quella che fu una totale rivoluzione nella interpretazione di questa misura amministrativa (e non beneficio, si badi bene). Nel luglio del 2000 per la prima volta in Itala si parlò di art.21 ad horas. In altri termini, considerando il sicuro aspetto retributivo della prestazione, fu possibile per tre detenuti che non potevano accedere ai benefici premiali, di uscire dal carcere per il tempo strettamente necessario a preparare le scene e poi a partecipare allo spettacolo che la Compagnia esibì nella manifestazione ideata dal DAP, ” oltre il muro del sogno” , nell’ambito di Tevere Expo. Anche in quel caso tutto è stato ascrivibile al coraggio del Direttore dell’epoca, di Rebibbia, Stefano Ricca. Tutti episodi che hanno attivato un processo operativo mai tradito dai detenuti (salvo veramente rarissime eccezioni, tutti i detenuti, e si parla di un numero che supera le 1300 unità, che hanno fatto parte di Compagnie di teatro penitenziario, sono sempre tornati in carcere). Episodi che si legano a due termini: ” fiducia” e ” coraggio del rischio”. Sono due termini assolutamente appropriati. La fiducia è quella cui aspirano i detenuti e che nella maggior parte dei casi, sanno rispettare. Il coraggio è quello espresso da Magistrati e Direttori penitenziari che hanno saputo rischiare, credendo nella volontà del cambiamento di molti reclusi.

Anche nei casi appena citati il Terzo settore ha fatto la propria parte perché entrambe le manifestazioni furono sostenute da due associazioni di promozione sociale, culturale e sportiva, da sempre presenti nelle realtà istituzionali.

Una dimensione che andrebbe meglio esplorata sul piano della estensione della applicazione, è quella del già citato art.21 dell’Ordinamento penitenziario.

Una rapida disamina di questo articolo, la cui applicazione in maniera più continua ed allargata, potrebbe già far lievitare l’accesso all’esterno dei detenuti attraverso un’occasione lavorativa, è essenziale per comprenderne imiti e ambiti di attivazione.

  • L’art.21 non è una misura alternativa alla detenzione ma e ‘una misura amministrativa. Le misure alternative partono dall’art.30 (permessi premiali). Non spetta al Tribunale di sorveglianza ma al Direttore dell’istituto che su – proposta dell’area trattamentale- può concedere l’art.21 con o senza scorta. La misura si applica dopo approvazione Magistrato di Sorveglianza. (Misura non collegiale come le altre). Tutto questo si collega al problema centrale di tutto l’apparato penitenziario: il coraggio del rischio e il sostegno alle scelte trattamentali non punendo quei funzionari che possono non essere compensati dal corretto svolgimento dell’art.21 da parte dei detenuti (fuga).
  • L’art.21 non presuppone autoimprenditorialità, ma deve essere prevista una continuità retribuita
  • Entrambe le situazioni rinviano a un cambio di rotta della Amministrazione centrale che deve sostenere la idea del rischio e non solo ed esclusivamente quella della sicurezza.
  • Il tema centrale risulta proprio questo: è la cultura penitenziaria che deve essere cambiata. Soltanto con una cultura interprofessionale si può cambiare. La polizia penitenziaria, ad esempio, deve essere coinvolta in questi processi se no anche la cultura del lavoro rientrerà in schemi legati alla sicurezza. (facciamoli lavorare così stanno buoni: è il classico modo di pensare interno a tanti contesti penitenziari)
  • E’ indispensabile prevedere il coinvolgimento della polizia penitenziaria nei processi di cambiamento; in tale logica è assolutamente miope prevedere un tavolo di lavoro, quello dell’Osservatorio o Cabina di Regia che dir si voglia, con le stesse figure e ruoli istituzionali che sino ad oggi non sono riuscite a produrre idee alternative per dare un senso di umanità e di prospettiva di risocializzazione alla popolazione detenuta.

A conclusione di un contributo che rimane aperto al confronto e al reperimento di nuove strategie e idee progettuali, si rende significativa la percezione per la quale l’aspetto del lavoro è sicuramente uno dei capisaldi fondamentali del processo di inclusione sociale, ma non va dimenticato come tale processo necessiti di integrazione di strumenti volti ad offrire competenze. Le competenze professionali possono anche preesistere alla carcerazione. In alcuni casi i detenuti sono dotati di capacità lavorative riconosciute. Quelle che mancano sono le competenze relazionali che permettano loro di resistere e sapersi inserire nei posti di lavoro. La disoccupazione spesso nasce dall’incapacità di mantenere una occupazione per l’esistenza di conflitti che nascono in tale ambiente. La gestione dei conflitti e l’offerta di conoscenze volte al riconoscimento dell’altro come portatore di modalità differenti ma integrabili rappresenta sicuramente un fattore su cui far crescere la disponibilità adattiva dei detenuti. Unitamente alla tematica sempre attiva della spendibilità lavorativa dei detenuti, rimane la percezione della complessità di una condizione di gran lunga più articolata che è quella della ” qualità della vita” dei detenuti e delle loro famiglie. Dimensione che è indispensabile ribadire può essere affrontata e circoscritta solo con politiche di integrazione sociale, che partono da logiche operative basate sulla interprofessionalità. Alla luce di quanto esposto, in sintesi, si può prevedere una sorta di decalogo operativo da attivare, per il quale risulta indispensabile:

  • privilegiare la ” cultura di rete”;
  • opporre la ” cultura dell’accoglienza ” alla subcultura criminale, ma anche alla “subcultura del pregiudizio e dell’etichettamento”;
  • estendere l’applicazione dell’art.13 O.P. (trattamento individualizzato) già nella fase in cui i detenuti diventano ricorrenti in Cassazione
  • sostenere l’applicazione dell’art. 21 O.P., incentivando le Direzioni penitenziarie a concedere la misura, attraverso circolari della Amministrazione Centrale che orientino il pensiero attuativo di tale disposizione normativa.
  • predisporre, per i detenuti, offerte formative ” reali” e non di facciata;
  • Ipotizzare un tavolo di lavoro che preveda la presenza di quelle Agenzie, come la Confindustria, ad esempio, che il ” lavoro oggettivamente lo producono”;
  • prevedere la presenza di uno o più rappresentanti del Terzo Settore nell’osservatorio permanente;
  • sostenere la ” trasferibilità delle buone prassi”;
  • estendere il Protocollo di intesa con la Cassa delle Ammende anche al Forum del Terzo Settore;
  • favorire la ” autoimprenditorialità”, anche attraverso la essenziale funzione del microcredito e favorire tutte le opportunità professionalizzanti che proiettino i detenuti fuori dalle mie carcerarie.

 

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