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Repubblica.it – Che fine fa il nostro otto per mille

Intervista al Portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore, Pietro Barbieri

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2016/03/14/news/come_viene_speso_il_nostro_8_per_1000-133497673/

Articolo di Carlo Ciavoni e Andrea Gualtieri

Nonostante solo la metà dei contribuenti italiani decida a chi destinare la quota Irpef prevista per fini sociali, l’80% della somma viene incassata dalla Chiesa cattolica che utilizza i soldi più per il mantenimento del clero e la propria organizzazione che per le opere di carità. Un patrimonio che vale ogni anno oltre un miliardo di euro gestito con criteri duramente criticati dalla Corte dei Conti. Non solo per quanto riguarda la parte affidata alle confessioni: anche sulla somma destinata allo Stato non mancano dubbi e polemiche.

Una torta da oltre un miliardo di euro

di ANDREA GUALTIERI
ROMA – C’è una spending review che fa fatica a tagliare bilanci e privilegi dei monsignori e c’è qualche scandalo finanziario che turba più d’una diocesi della Penisola. C’è lo Stato che sembra disinteressarsi di un tesoretto da duecento milioni di euro annui che potrebbero diventare anche di più. E poi ci sono le minoranze religiose che fanno fatica ad allungare le mani su un tavolo al quale formalmente sono invitati. Al centro c’è la torta chiamata otto per mille, che si torna a sfornare insieme al modello 730 per la dichiarazione dei redditi. È contestata, contesa, qualche volta sperperata o dispersa, in molti casi provvidenziale. E vale più di un miliardo di euro. A chi finisce? Alla Chiesa cattolica, in larghissima parte. Ma anche nelle casse pubbliche, appunto, e, per pochissime briciole, ad altre confessioni: dagli avventisti ai pentecostali, dagli ebrei ai luterani, con uno spiraglio che ora si è aperto anche per evangelici battisti, ortodossi, apostolici, buddhisti e induisti.

L’eredità del Concordato. Il meccanismo di ripartizione – sancito nel 1984 dal Concordato che porta la firma di Bettino Craxi e del Segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli ma ideato da Attilio Nicora, vescovo e giurista poi diventato cardinale – non ha mai smesso di far discutere. Tanto che una deliberazione dell’ottobre 2015 della Corte dei conti rileva come il sistema “non risulta del tutto rispettoso dei principi di proporzionalità, di volontarietà e di uguaglianza”. Un giudizio che la Conferenza episcopale italiana ha qualificato come “esorbitante”, aggiungendo che l’otto per mille è “un caso di democrazia nell’indirizzo della spesa pubblica, nell’ambito di finalità predefinite, che coinvolge anche il cittadino non praticante o addirittura non credente”. L’inghippo ruota attorno a quelle che vengono classificate come ‘scelte non espresse’ e cioè alla porzione dei contribuenti – quasi uno su due, secondo i dati degli ultimi anni – che non mette la propria firma per assegnare l’otto per mille ad una delle opzioni previste. La legge, in questo caso, prevede che il fondo venga comunque ripartito per intero e che le porzioni da attribuire a ciascun contendente siano stabilite in base alle percentuali delle scelte di chi la firma l’ha messa. E così la Chiesa cattolica arriva ad aggiudicarsi otto fette su dieci della torta per un totale che nel 2015 si è attestato sui 995 milioni di euro.

Sotto la lente della Corte dei conti. Ma i colpi che mandano di traverso il boccone dell’otto per mille sono anche altri. La Corte dei conti formula rilievi pesantissimi anche al governo. Lo accusa di manifestare “disinteresse” per i fondi che invece, secondo la legge, dovrebbero finanziare interventi per le calamità naturali, i beni culturali, l’assistenza ai rifugiati, la fame nel mondo e, in base alle ultime disposizioni, anche per l’edilizia scolastica. I magistrati rilevano che lo Stato non promuove campagne pubblicitarie, in alcuni anni ha azzerato addirittura la propria quota evitando di liquidarla e convogliando la cifra su altre voci di spesa pubblica. E poi distribuisce “a pioggia” i soldi a enti privati e Ong e soprattutto omette di verificare l’effettivo utilizzo dei contributi. Un atteggiamento che la magistratura contabile giudica “in violazione dei principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione”.

8xmille_Stato
REP DATA
Una burocrazia bulimica. Efficacia ed efficienza sono una ferita aperta anche per la Chiesa cattolica. Negli sede della Conferenza episcopale italiana c’è un lungo elenco di storie positive promosse grazie ai fondi del contributo pubblico: dai supermarket solidali per chi non può permettersi di fare la spesa, ai poliambulatori per le visite specialistiche gratuite ai più bisognosi; dalle fondazioni antiusura a mense e alloggi per i poveri. E poi microcredito, progetti per il recupero di beni confiscati alle mafie. Ma la porzione di fondi destinati alle opere di carità, rilevano gli stessi vertici della Cei, è ancora bassa rispetto alle altre voci di spesa. C’è insomma una burocrazia ecclesiastica che costa troppo. E che non si riesce a ridimensionare.

I numeri rivelano che solo un quarto dell’assegnazione annuale legata all’otto per mille viene spesa dalla Chiesa per interventi caritativi. Il grosso della fetta, invece, se ne va per le ‘esigenze di culto e pastorale’ – che tra fondo per la catechesi, tribunali ecclesiastici e spese di costruzione e manutenzione di edifici portano via il quaranta per cento della cifra – e sostentamento del clero, per cui si investe un terzo dell’importo. E questa è solo una media nazionale, perché nelle singole diocesi le proporzioni schizzano. Ci sono curie, infatti, nelle quali la quota di contributo ipotecata dagli stipendi dei sacerdoti raggiunge il 70 per cento, paralizzando di fatto ogni altra velleità di investimento assistenziale. Ed è infatti qui, a livello locale, che si perde di efficacia ed efficienza. E che si dilapida un capitale.

Patrimoni malgestiti. La differenza è proprio nella capacità di ciascuna curia di provvedere in proprio alla copertura finanziaria delle spese. La paga mensile dei sacerdoti è fissata in base a parametri nazionali: un presbitero appena ordinato guadagna 988 euro, mentre un vescovo vicino alla pensione arriva a 1.700, cifre dalle quali vengono detratte eventuali pensioni di anzianità o altri stipendi statali che potrebbero arrivare come cappellano in carcere o in ospedale o insegnante nella scuola pubblica. Ad assicurare la remunerazione dei sacerdoti dovrebbe essere l’istituto per il sostentamento del clero: ognuna delle 226 diocesi italiane ne ha uno, alcuni sono più ricchi altri meno, in base alle donazioni ricevute, all’accortezza dell’amministrazione e alla disponibilità che i vescovi hanno avuto nell’attribuire loro risorse dai bilanci della curia. Nel complesso, comunque, il patrimonio a disposizione degli istituti italiani è enorme, ma i risultati della gestione sono imbarazzanti: a fronte di un valore che, sommando solo gli immobili, è stimato per difetto attorno ai 4 miliardi di euro, il rendimento annuo è di appena 40 milioni. E allora, diventa essenziale l’intervento dell’otto per mille a cui, appunto, si attinge a piene mani.

Controlli in cortocircuito. Ma alle incapacità gestionali si aggiungono anche le irregolarità, facilitate da un sistema nel quale la rete dei controlli, quando c’è, è tessuta a maglia troppo larga. Nel 2014 il ministero dell’Interno rilevava che la verifica sui rendiconti “non è di tipo contabile, ma esclusivamente finalizzato a verificare che l’utilizzazione di tali fondi sia in linea con le finalità”. Nessuno, insomma, a livello centrale controlla ricevute e fatture. Non lo fanno i ministeri, non lo fa – per la parte del fondo di sua competenza – la Cei che demanda tutte le responsabilità alle diocesi. E in curia, dove un vescovo ha larghissimi poteri, i soli organi di vigilanza sono il consiglio affari economici e il collegio dei revisori, entrambi nominati però in larga parte proprio dallo stesso vescovo. Un cortocircuito che si ripropone anche per la gestione degli istituti di sostentamento, per i quali, poi, l’organo centrale di riferimento non è alla Cei ma in Vaticano, nella Congregazione per il clero alla quale però fa capo una sconfinata e incontrollabile costellazione di circa tremila tra diocesi e prelature sparse nel mondo.

Ripartizione gettito 8 per mille Irpef

ANNO DI IMPOSTA EROGATO
Redditi 2009 ripartiti nel 2013 Redditi 2010 ripartiti nel 2014 Redditi 2011 ripartiti nel 2015
Frequenza % Frequenza % Frequenza %
Totale contribuenti 41.504.041 41.499.535 41.320.548
Scelte espresse valide 18.532.985 44,66 18.974.479 45,72 18.929.936 45,81
Scelte non espresse 22.794.992 54,92 22.350.913 53,86 22.221.036 53,78
Anomalie 176.064 0,42 174.143 0,42 169.576 0,41

Fonte: finanze.gov.it

Una raffica di scandali. Maturano in questo contesto gli scandali finanziari che hanno travolto diversi episcopi italiani. Trapani ha addirittura subito nel 2012 la rimozione del vescovo Francesco Miccichè, finito sotto inchiesta perché per tre anni metà della quota di otto per mille destinata alla diocesi, circa 1,3 milioni, finiva in ville private e opere d’arte. Sempre in Sicilia un’altra ferita giudiziaria si è aperta nel dicembre scorso a Mazara del Vallo, dove il vescovo Domenico Mogavero si sta difendendo dall’accusa di essersi appropriato di 180mila euro della curia fatti transitare sul proprio conto corrente. Ancora più clamoroso il caso di Montecassino, dove l’abate-vescovo avrebbe speso centinaia di migliaia di euro presi dall’otto per mille in cene con ostriche e champagne, hotel di lusso e abiti degli stilisti più famosi. “Una situazione dolorosissima e penosa, ma va ricordato che in mezzo a un grande popolo di persone consacrate generose e trasparenti può capitare un caso di vita contraddittoria”, ha commentato il presidente della Cei, Angelo Bagnasco. Proprio il cardinale, nel presentare i conti dell’otto per mille relativi al 2015, ha assicurato che si sta cercando di ottimizzare il sistema per permettere di riservare una porzione sempre più ampia di fondi alle opere di carità. Ma la riorganizzazione e il taglio delle diocesi italiane, invocati persino da papa Francesco, stanno incontrando resistenze e si trascinano lentamente. E intanto ogni anno una nuova torta miliardaria torna sul tavolo per essere divisa.

Le differenze tra 8, 5 e 2 per mille

  • 8 per mille Il meccanismo è stato introdotto nel 1985 e indica una quota, appunto l’otto per mille del gettito fiscale Irpef, che si può destinare a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a destinazioni di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica e delle altre confessioni religiose. Nel caso di mancata indicazione la quota, anche di chi non ha fatto la scelta, viene comunque ripartita fra i soggetti che ne possono beneficiare. La ripartizione avviene in proporzione in base alle scelte fatte dai contribuenti negli anni precedenti.
  • 5 per mille È la quota delle imposte sul reddito che si può destinare a enti di ricerca, non profit, attività socialmente utili, volontariato, centri sportivi, enti che tutelano arte e paesaggio o anche un comune o ente locale. La scelta avviene firmando nel riquadro corrispondente alla finalità cui si intende destinare la quota indicando il codice fiscale dell’ente scelto tra quelli presenti sul sito delle Agenzie delle entrate.
  • 2 per mille Dal 2014 a queste due opzioni se ne è aggiunta una terza: ogni contribuente può destinare il due per mille della propria quota Irpef a favore di un partito politico tra quelli iscritti nella seconda sezione del Registro dei partiti politici, che possono accedere ai benefici previsti dal Dl 149/2013 sull’abolizione del finanziamento pubblico diretto.

Cattolici favoriti, la Corte chiede modifiche

di ANDREA GUALTIERI
ROMA – Parole chiave, proposte e conteggi sono degni del dibattito sull’Italicum. In questo caso, però, in palio non ci sono i seggi di Camera e Senato con la suddivisione dei collegi elettorali e dei voti, ma i fondi dell’otto per mille. Per i quali da anni, ormai, si trascina una contesa sotterranea tra le confessioni religiose: c’è chi reclama un metodo proporzionale, chi invoca una sorta di tetto di maggioranza e chi invece spinge per la sussidiarietà pura.

Si tratta di decidere cosa fare della quota di gettito proveniente da chi non ha espresso una scelta. Il meccanismo attuale, secondo ciò che scrive la Corte dei conti nel suo dossier datato ottobre 2015, “neutralizza la non scelta” e porta un “evidente vantaggio” per la confessione religiosa più forte, quella cattolica, dal momento che “i soli optanti decidono per tutti, con l’ulteriore conseguenza che il peso effettivo di una singola scelta è inversamente proporzionale al numero di quanti si esprimono”. Da via Aurelia a Roma, sede della Conferenza episcopale italiana, fanno notare però che il principio è identico a quello utilizzato per le elezioni dove “il numero dei votanti non determina il numero dei seggi da assegnare, che sono infatti assegnati tutti, anche se non tutti gli elettori si recano alle urne”. E in questo i vescovi trovano alleati nell’Unione induista italiana, secondo la quale “la non scelta è essa stessa una scelta” e una eventuale ignoranza della legge sarebbe comunque da considerare “inescusabile”.

A far alzare la voce ai contestatori sono però i numeri: il 53 per cento degli oltre 41 milioni di contribuenti non ha messo la propria firma sulla voce dell’otto per mille nella dichiarazione dei redditi presentata nel 2012 ed è stata una minoranza, quindi, a decidere come ripartire il miliardo e 245 milioni di euro distribuiti nel 2015. Con questa formula, alla Chiesa cattolica, alla quale è andata la preferenza del 37 per cento sul totale dei contribuenti, è stato assegnato l’80 per cento dei contributi per una somma – al netto di un conguaglio che l’anno scorso è stato negativo – di 995 milioni di euro. Questo perché, se si esclude lo Stato al quale è andato il consenso del 7 per cento dei contribuenti complessivi, tra le altre cinque confessioni religiose che fino al 2015 erano state ammesse al fondo, solo i valdesi hanno superato l’uno per cento di scelte, che sono valse un contributo di 40 milioni. Gli altri si sono divisi percentuali che vanno dallo 0,08 per cento degli avventisti allo 0,21 delle comunità ebraiche, ottenendo finanziamenti tra i 2,4 e i 5,9 milioni. Una sproporzione tale che, anche sommando le cifre attribuite negli ultimi quattro anni, le opzioni diverse dalla Chiesa cattolica si fermano a 922 milioni di euro, meno di quanto è finito in un anno nelle casse della Conferenza episcopale italiana. E di questa cifra, l’ottanta per cento è a sua volta inghiottito dalla quota opzionata per lo Stato, mentre alle confessioni alternative a quella cattolica, dal 2012 al 2015 sono arrivati circa 184 milioni.

È per questo che l’Unione cristiana evangelica battista, ad esempio, chiede un tetto per il fondo ai cattolici e aggiunge pure che lo Stato “non essendo una confessione religiosa, non dovrebbe partecipare alla spartizione”. E la Chiesa valdese, per contestare il meccanismo di ripartizione, fino al 2011 ha scelto di rifiutare l’attribuzione delle quote non espresse. Posizioni, però, che non hanno trovato seguito. O che sono state liquidate come ha fatto Attilio Nicora, il vescovo che sedici anni prima aveva partecipato alla stesura del concordato Stato-Chiesa da cui è nato l’8 per mille: nel 2000, quando lo interpellarono sulle critiche, il presule si limitò a dire che riteneva “psicologicamente comprensibile che qualche minoranza religiosa cerchi di farsi spazio attaccando la maggioranza, cioè la Chiesa cattolica”.

La difficile spending review delle diocesi

di ANDREA GUALTIERI
ROMA – Duecentoventisei diocesi: in media più di dieci per ogni regione e una ogni 250mila cittadini italiani. Al Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”, abituato ad episcopi con competenza su territori sconfinati e popolazioni immense, i conti non sono tornati sin dall’inizio. E così Francesco nel 2013, appena eletto, ha chiesto di intervenire. E di tagliare: “Io so che c’è una commissione per ridurre un po’ il numero delle diocesi tanto pesanti: non è facile, ma andate avanti con fratellanza”, ha detto parlando per la prima volta all’assemblea plenaria dei vescovi italiani. Il suo appello, però, finora è caduto nel vuoto. A distanza di quasi 3 anni l’ultima riunione del consiglio permanente della Cei, conclusa il 27 gennaio scorso, è tornata a chiedere a ciascuna regione episcopale di formulare le proprie proposte rispetto a un progetto da inviare in Vaticano alla congregazione per i vescovi. La nota ufficiale, però, con prudenza ecclesiastica pone come obiettivo il “riordino” e non la riduzione delle curie, lasciando quindi aperta la strada a soluzioni meno drastiche rispetto al passato, quando si era ipotizzata una scure sulle diocesi con meno di novantamila abitanti.

Scelte contribuenti e importi erogati
Cifre espresse in euro

2015 Scelte espresse valide % scelte sul numero contribuenti % sul totale scelte Importi % importi
Stato* 2.904.884 7,03 15,35 195.612.564 15,71
Chiesa Cattolica anticipo 15.185.809 36,75 80,22 995.462.448
(netto)
79,94
Unione Chiese cristiane avventiste del 7° giorno 35.119 0,08 0,19 2.399.406 0,19
Assemblee di Dio in Italia 48.900 0,12 0,26 1.517.586 0,12
Chiesa Evangelica Valdese(Unione delle Chiese metodiste e Valdesi) 604.345 1,46 3,19 40.284.765 3,24
Chiesa Evangelica Luterana in Italia 63.378 0,15 0,33 4.167.389 0,33
Unione Comunità Ebraiche Italiane 87.510 0,21 0,46 5.809.088 0,47
TOTALE 18.929.945 46 100 1.245.253.247 100

* Per lo Stato, gli importi riportati in tabella sono quelli potenzialmente attribuibili in base alle scelte dei contribuenti, vale a dire al lordo delle riduzioni previste dalla normativa
Fonte: finanze.gov.it

La soluzione del taglio lineare era stata discussa a lungo dai vescovi e poi scartata. Il cardinale Angelo Bagnasco ha spiegato: “In Italia esiste una tradizione di vicinanza tra il vescovo e la gente e nei territori di periferia ci chiedono di non lasciarli soli, proprio mentre lo Stato razionalizza servizi e gangli sociali”. Se questi, però, sono i presupposti, è difficile aspettarsi ora che la nuova consultazione avviata dal basso possa approvare un ridimensionamento significativo delle diocesi. A fronte di un numero di sacerdoti crollato del nove per cento in 10 anni, gli ultimi accorpamenti, in Italia, risalgono a trent’anni fa quando ne vennero sfrondate 99. Ancora adesso, però, ci sono curie come quella di Tricarico in Basilicata, che hanno giurisdizione su 37mila abitanti appena. E altre, come Cassano Ionio in Calabria, che contano solo una settantina di sacerdoti alla guida dei quali sono stati cambiati sei vescovi in trent’anni anni: l’ultimo a partire, nel 2015, è stato l’attuale segretario Cei Nunzio Galantino, chiamato dal Papa a Roma. E se Bergoglio ha imposto almeno di limitare il valzer dei vescovi – “non cercate cambi o promozioni”, ha detto loro – la presenza di tanti episcopi comporta comunque un’impennata delle spese, che va a pesare sulle casse dell’otto per mille. Ogni curia ha infatti i propri uffici pastorali con relativi impiegati e con le indennità aggiuntive per i preti che ne hanno la responsabilità. E poi si devono gestire istituti di sostentamento del clero, tribunali e in molti casi seminari, spesso quasi vuoti.

Così, non riuscendo a trovare un’intesa per tagliare le diocesi, si sta provando almeno a limitare l’emorragia di soldi ed energie con un qualche forma di equilibrismo diplomatico. Ai vescovi è stato infatti “caldamente consigliato” di valutare accorpamenti sulle strutture amministrative che gestiscono i patrimoni destinati ad assicurare gli stipendi ai sacerdoti. Un passaggio che, tra l’altro, permetterebbe di migliorare i controlli e ridurre il margine per gli scandali finanziari. Un comune denominatore territoriale si sta studiando anche per ridurre il numero dei tribunali ecclesiastici, strutture costosissime chiamate a giudicare, tra l’altro, le cause di nullità matrimoniale che papa Francesco vuole rendere rapide e gratuite. Per i preti, invece, la Cei ha già preso una prima iniziativa, congelando l’adeguamento della paga mensile rispetto all’inflazione. Quest’anno, per l’ottava volta, non sarà aggiornato rispetto all’inflazione il valore del ‘punto’ di base dello stipendio: vale 12,36 euro, un sacerdote appena ordinato ne ha 80, ogni cinque anni ne matura altri due per anzianità, mentre a discrezione del vescovo ne può ricevere altri in base ai suoi incarichi ma fino a un tetto massimo. “Nessun prete si è lamentato dei tagli e anzi molti stanno consegnando parte del loro stipendio per i poveri”, racconta Bagnasco. Aspettando la spending review, ci si deve affidare alla buona volontà.

Le ong si sentono trascurate: servono certezze

di CARLO CIAVONI
ROMA – E’ una lotteria, che produce la stessa ansia di chi gioca e spera almeno in un premio di consolazione per sopravvivere e proseguire nei tentativi di salvare, cambiare, migliorare la vita del prossimo. Ecco cosa significa ogni anno, per circa 330 mila organizzazioni no-profit italiane, l’attesa della ripartizione delle risorse che lo Stato incamera attraverso l’8 per mille dell’Irpef e che i contribuenti consegnano nelle mani dell’erario.

Una violazione sistematica “dei principi di efficacia ed efficienza” – come ha denunciato la Corte dei Conti – di fronte alla quale al mondo del no-profit non resta che prenderne atto. Ma ricordando a tutti che, se – come è accaduto nel 2013 – dei 170 milioni entrati nelle casse dello Stato attraverso l’8×1000 alla fine, togli di qua e togli di là, sono rimasti appena 400 mila euro, diventa impossibile programmare alcunché.

Escursioni tanto rilevanti, tra quello che lo Stato incamera e quello che poi di fatto rende disponibile, che permetterebbero di finanziare anche centinaia di progetti di durata triennale. Se si potesse contare su una somma definita, il governo potrebbe valutare al meglio le emergenze del Paese: se – ad esempio – la questione-rifugiati è prioritaria o no, e quali fasi del processo di accoglienza hanno bisogno del sostegno all’intervento sussidiario del volontariato e del Terzo Settore in generale. La distribuzione “a pioggia”, dunque, è solo l’effetto dell’assenza di una idea politica rispetto alla quota statale dell’8 per mille.

Ci sono stati anni di assoluta incertezza, di autentico caos, in cui l’ammontare complessivo della somma raccolta evaporava letteralmente, riducendosi in cifre ridicole. Ciò che restava dopo mille provvedimenti d’urgenza per tappare buchi di bilancio o per far fronte ad emergenze di ogni sorta. Da qualche anno – diciamo dal governo Letta in poi – si assiste, quanto meno, ad uno sforzo più o meno discontinuo, nel cercare orizzonti più definiti, un destino più certo a quei fondi. Ma c’è ancora molto da fare.

Alle organizzazioni umanitarie – associazioni di volontariato, di promozione sociale, di cooperazione, le fondazioni, i comitati, le Ong: insomma l’intero mondo no-profit – ancora oggi arriva ciò che resta di un “bancomat” preso d’assalto di volta in volta dal governo per missioni militari, calamità naturali ed altre emergenze. Lo Stato si comporta in genere come se le risorse per le attività di aiuto allo sviluppo nei paesi stremati da carestie, guerre o disastri naturali, così come per la supplenza del no-profit in numerosi campi dei servizi al cittadino fossero l’ultima cosa di cui preoccuparsi.

Negli uffici del Forum del Terzo Settore sono raccolti dati che raccontano come in alcuni anni l’ammontare che l’erario avrebbe dovuto destinare alle organizzazioni umanitarie si è ridotto dell’85%. E si registra soprattutto anche un altro dato imbarazzante: e cioè che spesso ciò che resta nel “bancomat”, già prosciugato dalle emergenze, viene utilizzato per interventi di restauro di beni culturali. Nulla da eccepire, si direbbe. Si dà però il caso che gran parte di questo patrimonio spesso coincida con edifici ecclesiastici.

E’ evidente come gli italiani che decidono di lasciare nelle casse dello Stato una parte delle loro risorse vengono di fatto traditi“, dice Pietro Barbieri, portavoce del Forum del Terzo Settore. Rimarrà negli annali il 2013, quando dei 170 milioni raccolti con l’8 per 1000, furono distribuiti solo 400 mila euro. E succede così, ora più ora meno, tutti gli anni, manovrando di volta in volta attraverso la Legge di Stabilità“.

Insomma, non è così che deve andare – dice ancora Barbieri – perché è un saccheggio che ha svelato e continua a svelare una sostanziale incapacità politica di pianificare. Si guardi per esempio cosa succede nell’ambito dell’accoglienza e dell’inclusione dei migranti. Ci sono cittadini – laici, cattolici e di altre confessioni – impegnati in un lavoro volontario che non viene valorizzato e resta programmaticamente non sostenuto. Dunque endemicamente episodico“.

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